6.Camminavo su e giù per la camera nervoso. La strana sensazione che non voleva sparire. Lo aspettavo. Era passata mezz’ora da quando eravamo arrivati in albergo, ma di lui non ce n’era ancora traccia. Ero preoccupato, mi veniva da sbattere la testa al muro. Il tempo passava e non avevo ancora sue notizie. Cercai di chiamarlo, ma attaccava la segreteria telefonica.
Si erano già fatte le sei del mattino, non avevo chiuso occhio. Mi torturavo le mani dal forte nervosismo. Non sapevo che fare oltre a girare per tutta la stanza, così presi il telecomando ed accesi la televisione. C’era un telegiornale. Non lo seguii attentamente, il pensiero era fisso solo su di lui e su dove potesse essere finito. E fu in quel secondo che il mondo mi crollò addosso.
« Incidente stradale a Sanremo. Coinvolto il neo vincitore del festival, Valerio Scanu, assieme al manager. L’uomo è morto sul colpo, il giovane cantante è stato ricoverato in prognosi riservata, mentre i passeggeri della macchina con cui è avvenuto lo scontro sono leggermente feriti.»
No. No. No. No.
Non volevo crederci! Non poteva essere, dovevano essersi sbagliati.
Uscii di corsa dalla stanza, dovevo scoprire in quale ospedale era stato ricoverato. Dovevo vederlo, dovevo vedere come stava. Corsi fino alla hall chiedendo alla reception se loro sapevano qualcosa. Non sapevo che fare, chi chiamare, a chi chiedere. Mi sentivo perso e disperato. Mi poggiai ad un muro scivolando e sedendomi, le mani tra i capelli le lacrime che continuavano a scivolare via.
Dovevo fare qualcosa, dovevo muovermi. Decisi che a costo di girarmi tutti gli ospedali di Sanremo e dintorni dovevo trovarlo. Non mi spaventava l’idea di girare senza meta per un tempo indefinito. Tutto ciò che mi interessava era vederlo, stringerlo a me e capire che tutto era un grande equivoco.
Uscii dall’hotel e cercai di prendere un taxi per andare al primo ospedale. Arrivai, ma fu un buco nell’acqua. Così come il secondo. Mentre mi avviai all’ospedale seguente la notizia che più temevo passò alla radio.
« Il cantante sardo diciannovenne non ha superato la mattinata.»
No! No! No! No!
« Si fermi!»
Urlai al taxista dandogli dei soldi a caso, senza contarli e scesi dal taxi. Preso dalla disperazione cominciai a tirare calci a qualsiasi oggetto mi capitasse sott’occhio. Non mi importava delle persone che mi guardavano come se fossi matto. Lo ero. Ero folle. Folle di dolore. La persona che avevo appena trovato, che avevo appena iniziato ad amare non c’era più. Se n’era andata per sempre. Cosa avrei potuto fare se non sfogare tutto il mio dolore calciando e tirando pugni alla qualsiasi? Cosa avrei dovuto fare? Non ci volevo credere. Non volevo. Non dovevo. Non potevo. Non potevo concepire il fatto che lui non ci fosse più. Era un qualcosa che non avevo mai contemplato, che non avrei mai voluto contemplare. Mi buttai di peso per terra a sedere, il viso inondato di lacrime, le orecchie che non udivano alcun suono, il respiro affannato, il cuore che aumentava i battiti. Non riuscii più a controllare il mio corpo, non ne avevo la percezione. Mi sentivo un estraneo in casa di altri. Tremavo, lo stomaco rigido come acciaio. Strinsi i pugni e cercai di regolare il respiro. Fu un tentativo vano. Non riuscivo più a controllarmi. Finii sdraiato per terra, a stento compresi che della gente aveva cominciato a circondarmi.
Poi fu tutto come un film accelerato. L’ambulanza che arrivava, i dottori che mi visitavano e le gocce di calmante che mi vennero somministrate. Non appena fui calmo e nel pieno delle mie capacità mi dissero che avevo avuto un attacco di panico e che mi avrebbero fatto uscire in qualsiasi momento io avrei voluto. Restai su quel lettino, a scrutare ogni macchia del soffitto. Il dolore ricominciò a farsi strada in me. Chiudendo gli occhi mi lasciai andare ad un pianto sommesso e disperato.
Passarono due giorni, la disperazione per la sua perdita ancora viva nei miei pensieri. Era il giorno dei funerali. Si sarebbero tenuti alla Maddalena, il suo paese natio. Non ero sicuro di riuscire ad affrontare quel momento. L’immagine del giorno in cui lo vidi per la prima volta era ancora vivida nella mia mente. Non era passato molto e questo peggiorava il mio stato d’animo. Con lui avrei voluto dividere passato, presente e futuro. Per lui sarei stato disposto a mollare tutto, chiudere baracca e fare ciò che diceva lui. Ero pronto a passare gran parte della mia vita con lui. In quei pochi giorni era successo di tutto, tutto quello che accade in anni ed anni di rapporto noi l’avevamo vissuto in qualche giorno.
Arrivato davanti la chiesa vidi che c’era una grande confusione, erano tutti lì per dirgli addio. Lui, quel ragazzetto di 19 anni, con una voce spettacolare. Lui che era un piccolo genio, che faceva innamorare tutte le ragazzine. Lui che sapeva prenderti in giro senza fartelo capire. Lui che mi sarebbe mancato da morire. Lui che sarebbe mancato un po’ pure a loro.
Per fortuna riuscii ad entrare, dentro era peggio che fuori. Piano piano riuscii ad arrivare fino al punto in cui il feretro era visibile. Lo osservai e un nuovo pianto cominciò a farsi strada sul mio viso. Credevo di aver finito le scorte di lacrime in quei due giorni passati in quella stanza d’albergo sdraiato sul letto in posizione fetale e le braccia che cingevano le gambe a ripensare a noi. A ciò che era stato, a ciò che non avrei più avuto.
La funzione cominciò. Fu lunga e dolorosa. Le lacrime non smisero per tutto il tempo di rigare il mio volto, fortunatamente celato dai miei soliti occhiali da sole grandi quanto la mia faccia. Non riuscivo a sopportare tutte quelle persone accanto a me. Avevo voglia di scappare, rinchiudermi ancora in una stanza a farmi del male ripensando a lui. Ma non potevo farlo, non potevo andarmene senza avergli detto addio.
Per quanto avessi cercato di resistere, non riuscii a sopportarlo. Mentre scrutavo le persone della prima fila, i suoi parenti, incrociai un viso. Così diverso da lui. Ma gli occhi. Quegli occhi! Erano i suoi. Senza attendere oltre mi girai ed uscii in cerca di aria. Il respiro ancora una volta si ribellava e diventava irregolare.
Una mano si poggiò sulla mia spalla e mi voltai. Era quel ragazzino. Alex, suo fratello. Gli occhi gonfi e rossi dal pianto, l’espressione dolorante. Guardarlo era una fitta allo stomaco.
« Tu sei Marco, vero?»
Rimasi shoccato. Molti ormai sapevano il mio nome, ma mi sorprendeva il fatto che lui fosse venuto a cercare me.
« Vedi, mio fratello nelle sue ultime mail mi ha parlato di te.»
Si guardò le mani, che torturava nervoso. In faccia gli si leggeva l’imbarazzo che gli provocava quella conversazione. Ma quel che mi rimase impresso fu quella frase “mi ha parlato di te”. Sapevo che parlasse di tutto con il fratello, ma non immaginavo che avesse parlato anche del nostro rapporto assieme a lui.
« Ti ha parlato di me?»
« Sì. Sai, ti amava davvero tanto…»
Alzai lo sguardo cercando di trattenere la nuova ondata di lacrime. Alex si mise una mano in tasca e ne estrasse qualcosa. Riconobbi subito la fede che lui portava sempre, quella di suo nonno.
« Voglio che questa la tenga tu. So quanto lui tenesse a te, mi sembra giusto che questa la debba portare con te. »
Presi in una mano il cerchio luccicante. Di sopra gli cadde una mia lacrima e, stringendola in una mano, la portai al petto.
« Grazie…»
« Non ringraziarmi, sono sicuro che è questo che lui vuole. Da come mi parlava di te sembrava che vi amaste da anni… Sono felice che almeno gli ultimi suoi giorni di vita siano stati pieni d’amore. Grazie per esserti preso cura di lui in quei giorni.»
Detto questo se ne andò, lasciandomi lì, attonito, a guardare la sua figura che si allontanava.
Da quel giorno la fede rimase per sempre al mio dito.
***
Asciugo le lacrime con stizza rigirando la fede nel dito. Così, mentre riordino i pensieri, comincio a scrivere. A scrivere quella lettera che gli devo. Quella lettera per spiegargli. Non tralascio nemmeno il più minimo particolare.
E così termino quella lettera:
“Non so se ora capisci ciò che provo tuttora dentro di me. Per quanto siano passati ventitre anni da quel giorno, non riesco a smettere di pensare a lui.
Adesso hai 19 anni, la stessa età che aveva lui quando perse la vita. Ti guardo e cerco di trovare in te un po’ di lui. Ed è anche per questo che decisi di metterti quel nome. Valerio.
Non volermene se te ne parlo solo ora. Mi hai sempre chiesto il motivo di quel nome, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo.
So cosa tu ora possa pensare: non amo tua madre. Sì, la amo. Ma l’amore che provo per lei non è grande quanto quello che provavo e provo tuttora per lui. Probabilmente prima o poi racconterò questa storia anche a lei. Sono certo che mi capirà. Come non potrebbe farlo? Lei era una sua grande amica, sai? La conobbi 3 anni dopo la sua morte, durante un concerto in suo onore.
Ti chiederai a che pro io ti abbia raccontato questa storia. Voglio che tu sappia che non devi porre mai alcun freno ai tuoi sentimenti, soprattutto all’amore. Non stare a guardare il sesso della persona che ti interessa. Non stare a guardarne l’età, il colore, il ceto sociale. Ama. Non devi fare altro. Della tua vita devi fare ciò che vuoi, non lasciare che sia no gli altri a decidere per te. Vai avanti per la tua strada e non badare a loro.
Perché tu sarai sempre il mio solo destino posso soltanto amarti senza mai nessun freno.
Il tuo papà.”
Bagno il foglio con varie lacrime che solcano il mio volto inesorabili. Spero che quando leggerà questa mia lettera potrà capire il messaggio che ho cercato di dargli.
Quella canzone. Quanto l’ho amata, quanto l’amo. È la mia canzone preferita, la canzone che mi parla di lui.
“Forse serve un po’ di tempo
vedo, spero, credo, sento
voglio essere importante per te
e non per la gente
Perché tu sarai sempre il mio solo destino
Posso soltanto amarti
Senza mai nessun freno
.
Anche se non respiro e non mi vedo più
In un giorno qualunque dove non ci sei tu.”Non lo dimenticherò mai. Mai dimenticherò le sue labbra. Mai dimenticherò il suo volto. Mai dimenticherò l’amore che mi diede. Mai dimenticherò l’amore che provai per lui e che continuo a provare.
Amore senza freno. Amore senza fine.
Amore vero.